Nel paese dei ciechi – Repubblica 23.12.2016

La cecità è avvolgente. Uscire all’aperto e vedere così poco – appena una foschia opalescente – è al di là di ogni immaginazione. Al chiuso, invece, buio opprimente. Ciò significa che non puoi scrollarti di dosso la solitudine facendo una passeggiata per strada, perché potresti inciampare, cadere, romperti qualcosa. Significa che non riesci a vedere un amico di passaggio, la cui sola vista potrebbe tirarti su il morale come una chiacchierata vera e propria. Le immagini, come i suoni, di rado evocano un flusso di ricordi di norma inaccessibili in grado di illuminare e rendere rosea la giornata. Chi sei? devo averlo chiesto a decine di persone che mi hanno rivolto la parola. Il loro linguaggio corporeo mi è invisibile, e così pure i loro sorrisi. La natura umana è ammantata di ambiguità. Avresti bisogno di vedere il tuo prossimo, ma sei incappucciato, come un prigioniero. Avevo già perso la vista una volta a causa della cataratta venticinque anni fa, ma grazie alla chirurgia l’avevo miracolosamente recuperata. Poi le cose si sono aggravate di nuovo finché, raggiunti gli ottant’anni, ho avuto bisogno del bastone. Tap, tap. Il termine tecnico è visione ambulatoriale. Ogni cosa diventa estemporanea, improvvisata di ora in ora. Versare il caffè senza rovesciarlo, toccare il gabinetto così da non farla sul pavimento, chiamare il servizio informazioni per avere un numero di telefono che non puoi leggere al computer o nell’elenco abbonati. Per mangiare hai bisogno di molto tempo, perché non vedi il cibo. Quando prepari le uova strapazzate devi sfiorarle con i polpastrelli. Ti affliggi all’idea di apparire ripugnante. Per comprare beni di prima necessità devi richiedere aiuto. La gentilezza degli estranei è proverbiale – una signora mi accompagna attraverso il caos dell’aeroporto fino alla fermata dei taxi, una cameriera mi restituisce la banconota da 50 dollari che le ho dato credendo erroneamente che fosse da 20. La cecità è un handicap, di fatto, ma tutto sommato è un handicap empatico, perché gli altri possono facilmente immaginare di esserne colpiti e in qualche caso fanno addirittura una sorta di prova generale quando di notte camminano e inciampano in una casa completamente buia. Ricordo che a scuola prendevamo in giro gli studenti che indossavano occhiali dalle lenti spesse come fondi di bottiglia, ma non ridevamo mai di quelli ciechi, i cui occhiali neri stavano a significare che non ci potevano vedere proprio. Le orecchie dovrebbero imparare a fungere da localizzatori. Di notte cerco il bagno guidato dal ticchettio di un orologio. Quando diventi cieco ti si presentano alcune incongruenze esasperanti, ma hai anche una nuova scusa per non accettare impegni sociali ai quali non hai voglia di partecipare. In più, puoi sbarazzarti dell’automobile. In ogni caso, io riesco ancora a distinguere la luce del giorno e le sagome umane, le corone degli alberi e l’acqua corrente, e le foglie che vorticano e svolazzano contro lo sfondo del cielo azzurro mi rammentano che per 80 anni ho potuto ammirare intensamente vari continenti. Magnifici scorci di montagna con prati verdeggianti e falesie scoscese costellano i miei sogni, riflessi di ricordi di pascoli erbosi in Sicilia e in Grecia dove abbonda il falasco, o di canyon variopinti, e poi di grattacieli imponenti o della cappella di Matisse. Di conseguenza, è un impoverimento impressionante risvegliarsi al mattino. I volti non sono più solcati da rughe, i vetri delle finestre non sono più punteggiati di goccioline di pioggia, i gatti non ingaggiano zuffe per il territorio tenendo le code ben ritte, e i francobolli non riproducono più soggetti a colori vivaci. Dimentico la mia condizione e cerco a tastoni i miei occhiali da vista, dove saranno mai finiti, come se potessero porre rimedio all’emergenza. La cecità è un’emergenza. Le imposte delle finestre sono chiuse, e si affronta la situazione in una miriade di modi diversi. La cecità come metafora non è incoraggiante. Così ubriaco da esser cieco, un genitore cieco nei confronti della miseria della sua prole, un politico cieco verso le necessità del suo elettorato. Quando sei cieco non puoi leggere un testo né l’aggrottarsi delle sopracciglia altrui, ma se qualcuno inizia a parlarti e non lo vedi, resta tranquillo, aspetta fino a quando non lo capirai. La chiave di tutto è l’equilibrio. Le notti possono illuminarsi se il mondo si imbianca misteriosamente, come se i nervi ottici si ribellassero. è strano quando una parte del corpo muore ma tutto il resto no. Nella cecità non ci disfiamo dei nostri occhi, continuiamo a consultarli in vario modo a vuoto, proprio come a un amputato sembra che gli arti perduti quasi funzionino ancora. Come la caverna di Platone, così il nostro cervello è fatto di ricordi che appaiono fugacemente su una parete. Le fenomenalità della vista sono adesso ricordi, ma il mio sesto senso è stato d’aiuto. Chiamatela intuizione. Non mi sono mai sentito disperato, non più di quando ero piccolo e non riuscivo a parlare. La cecità assomiglia a un infarto prolungato. Le funzioni si deteriorano a mano a mano che il tuo passo rallenta. I muscoli si atrofizzano e così pure le sensibilità. Non puoi esaminare un nuovo volto, eppure gli anfratti della tua mente hanno più cose da mettere in collegamento tra loro se la vista è andata persa alla mezza età o più tardi ancora. Puoi dedicarti alla speleologia. Dove sono i miei occhi, penso all’improvviso, quasi avessi dimenticato da qualche parte il cappotto. I paesaggi diventano impressionistici, i dettagli ne sono cancellati. Al cuore di tutto un’abbreviazione. Ogni input è preziosissimo: le conversazioni che altre persone si soffermano a regalarti, al di là della loro nuda bellezza, descrivono scenari stimolanti che non puoi vedere. Per decifrare i titoli di una locandina di giornale all’edicola occorre la luce forte del sole, ma un’illuminazione schermata ha usi più sottili, e nel buio assoluto un cieco è addirittura in vantaggio. La novità è il sale della vita e dà sapore alla nostra routine quotidiana anche quando perdiamo la vista. Gli occhi non ti obbediscono quando fai quattro passi, eppure polmoni, gambe e braccia sono in forma come non mai. Per semplice esercizio, mi sollevo di slancio da ogni sedia oppure muovo le gambe come andassi in bicicletta quando sono a letto, anche se poi purtroppo mi capita di prendere due scarpe completamente diverse e le indosso a forza. Spesso, anche le calze sono diverse. Perché non sono più eccentrico? mi chiede un amico. Sono indifeso, non posso essere eccentrico. La cecità è passività forzata. Sono diventato un cittadino di serie B, oggetto di preoccupazione. L’eccentricità non persuaderebbe la gente a trattarmi con sollecitudine. Disabile, quella definizione arida che un tempo nel corso della mia vita si usava nel caso di molti altri, adesso si applica a me. E per quanto potrò mi rappacificherò con essa. Edward Hoagland scrive di viaggi e ha pubblicato il romanzo In the country of the blind ( Nel paese dei ciechi) © 2016 The New York Times. Traduzione di Anna Bissanti ©